La produzione parla sempre più cinese

Edoardo Elmi ha lanciato Guandong Italia, che seleziona le migliori soluzioni del gigante asiatico

Volto più che noto nell’universo delle arti grafiche, Edoardo Elmi è un attento conoscitore del mercato ed oggi è riuscito a vedere potenzialità in un Paese che invece ai più fa ancora paura. Stiamo parlando della Cina, che allo sguardo acuto di Elmi è diventata un’opportunità unica per lanciare nuove sfide nel mondo della stampa e della comunicazione visiva, focalizzando, in particolare, l’attenzione sui prodotti cosiddetti di nicchia, per la realizzazione di soluzioni innovative. E quindi Viscom 2007 ha tenuto a battesimo Guandong Italia, la nuova realtà aziendale con sede a Milano e uffici di rappresentanza a Shanghai che si occupa di scegliere il meglio che la Cina può esprimere in termini di supporti per il settore Visual e Interior Decor. Abbiamo incontrato il deus ex machina di tutto ciò, e che ci ha dipinto un quadro preciso e molto interessante del mercato cinese e dei suoi complessi rapporti con quello italiano.

Perché ha scelto proprio la Cina, che oggi è vista come un concorrente pericoloso, per questa nuova sfida?
Ma quale concorrente. Al limite potremmo considerare la Cina un reparto di produzione esterna. I cinesi hanno la vocazione per la produzione. Fino a due secoli fa erano considerati la fabbrica del mondo, poi si sono un po’ persi. Credo che oggi abbiano le potenzialità per ritornare a esserlo. Nella nostra società italiana, ormai da diverse generazioni, tutte le famiglie vogliono dare un’educazione superiore ai loro figli che, dopo venti anni di studi, hanno aspettative non sempre realizzabili. Pertanto, o la società è in grado di soddisfare almeno in parte le attese che abbiamo creato, oppure rischiamo di aver prodotto una generazione di disadattati se pretendiamo che questi nostri figli vadano in fabbrica a produrre supporti per la stampa digitale. Se, quindi, vogliamo continuare a produrre, dobbiamo importare manodopera da Paesi terzi, così come già avviene in diversi settori industriali. Quindi, lasciamo che i cinesi producano. Noi impegniamoci a sviluppare i nostri cervelli e magari quelli dei nostri figli, investendo le risorse nella ricerca e nelle politiche di marketing.

Lei è stato in Cina molte volte, come sceglie le aziende con cui instaurare un rapporto di lavoro?

Trascorrendo ore e ore nei reparti di produzione per controllare la gestione delle formule e soprattutto per verificare se il processo di produzione è veramente sotto controllo o se, come accade nella maggior parte dei casi, è affidato solamente alla diligenza del singolo operatore. Certamente per fare questo lavoro non basta essere esperti della materia in termini commerciali, ma bisogna esserlo in termini tecnici.

Quali sono le aziende cinesi con cui avete stretto delle partnership? Cosa offrono?

Nel 2007 ho trascorso 56 giorni in Cina, ho visitato oltre 80 realtà produttive e, in tutto il Paese, sono riuscito a selezionare solo tre aziende che rispettavano gli standard qualitativi di produzione che mi sono posto come criterio di scelta. Inoltre, ho individuato un partner interessante in Thailandia: l’azienda Solvay (CPPC), con uno stabilimento di produzione che utilizza tecnologie comparabili a quelle europee, dotato di un’impiantistica tecnologicamente all’avanguardia.

In base a quali caratteristiche valuta i materiali da importare?
I materiali sono selezionati in base all’assoluta rispondenza agli standard europei in termini di qualità, garanzia e sicurezza.

Qual è il prodotto cinese che l’ha stupita di più?
Sicuramente il perforated vinyl, che in Cina registra una diffusione capillare anche per applicazioni sconosciute in Europa. Questo aspetto l’ho riscontrato anche per altri articoli in quanto, essendo come dicevo la Cina la fabbrica del mondo, non sempre i produttori cinesi conoscono la destinazione d’impiego e la potenzialità di alcuni prodotti realizzati su domanda della clientela internazionale. Nei miei viaggi mi è capitato di raccogliere la testimonianza del successo di certi materiali, ma il termine successo per loro significava solamente che ne producevano grandi quantità, di cui però non conoscevano esattamente l’applicazione. Visitando la fabbrica del mondo è possibile quindi trovare idee nuove, che in Europa non sono ancora arrivate, ma che potrebbero trovare grande riscontro anche nel nostro mercato.

Come sta cambiando il mercato cinese? Nota una maggiore attenzione verso un concetto tradizionalmente occidentale come quello della qualità?
Si tratta di un processo lento, anche perché il domestic market, che è enorme, si accontenta anche di standard qualitativi contenuti. E questo è il grande problema. Solamente l’8-12% delle aziende cinesi è abilitato all’esportazione; molti altri produttori devono esportare affidandosi a broker. Sono pochissime le imprese che possono garantire standard qualitativi di produzione che rispettino le necessità dei nostri mercati. Acquistando dai broker, in realtà, non si può avere la garanzia della continuità e della provenienza della merce e, quindi, di processi produttivi di qualità. Si fa presto a dire che i prodotti cinesi sono di basso profilo, facendo di tutta l’erba un fascio. Lo dicevamo dei prodotti giapponesi negli anni ’60, di quelli turchi negli anni ’80 ed è giusto che lo si dica oggi di alcune produzioni cinesi. Ma va tenuto presente, però, che la bassa qualità regna sovrana ovunque. Ciò che fa la differenza è la capacità o la volontà del compratore di fare un’adeguata selezione.

Al di là dei falsi timori, quale valore aggiunto può dare il mercato cinese a quello italiano?
La premessa fondamentale è che gli italiani continuino a fare gli imprenditori, svolgendo le necessarie ricerche tecnologiche e di marketing. Assodata questa premessa, i cinesi ci possono sicuramente sollevare dalla problematica produttiva e da tutte le conseguenti dinamiche derivanti dall’ingessamento a cui il frusto rituale sindacale ormai ci ha abituato.

Si sente di consigliare anche ad altri imprenditori di seguire una strada simile alla sua? Che suggerimenti darebbe per muovere i primi passi?
Per valutare la qualità dei prodotti cinesi, serve una cultura tecnica specializzata, che consenta di individuare le aziende cinesi di qualità. Senza questo, si finirebbe per comprare alla cieca sulla base di promesse che restano tali. Il know-how tecnico e la conoscenza del mercato non sono dei semplici plus, ma dei must per poter lavorare con le aziende cinesi, al fine di importare un prodotto tecnologicamente corretto. Bisogna, inoltre, tener presente che fare business con la Cina è un fattore puramente finanziario. Il consiglio che posso dare è, quindi, quello di farsi un esame di coscienza e valutare, con tutta la consapevolezza del caso, se si posseggono le qualità per poter affrontare il mercato cinese: know-how tecnico, conoscenza del mercato e conoscenza delle dinamiche finanziarie.

Tanti supporti sono ormai maturi. Cosa ancora non è stato detto nel mondo dei materiali?
L’evoluzione della specie sta nei prodotti maturi. Il punto non è nel fatto che ormai siano maturi, perché ciò significa che il mercato li conosce e li sa gestire e utilizzare. Le nuove proposte permettono a questi prodotti di spaziare maggiormente nel mercato con nuove applicazioni. Non voglio disdegnare le novità che i produttori presentano ciclicamente, ma ritengo che nessuna di queste sia veramente rivoluzionaria. Possono essere considerati delle evoluzioni di prodotti preesistenti, con peculiarità idonee a certe nicchie di mercato. Come tali possono quindi rappresentare un business, che però va considerato e sfruttato in base al ciclo di vita, certamente ridotto, che possono avere prodotti che cavalcano le tendenze del momento.

Guandong in cinese significa comprendere con uno sguardo. Che cosa il mercato italiano deve comprendere ancora?
I cinesi non sono certo degli esperti nel mondo delle materie plastiche. Per loro è una tecnologia troppo recente. Quando si era già sviluppata e affermata nel mondo occidentale, loro vivevano ancora altre realtà. Ciò non deve trarre in inganno. I cinesi così come i giapponesi hanno una conoscenza storica del concetto di qualità, come dicevamo sopra, e di attenzione maniacale al particolare. Quello che sembra vero oggi non lo sarà più fra dodici mesi. Comprendiamo quindi che lì si stanno evolvendo grandi opportunità e che noi dobbiamo essere in grado di gestire in Italia e in Europa. Non aspettiamo che altri lo facciano mentre noi ci limitiamo a stare a guardare.

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