Italia digitale, non sarà solo una promessa?

Accesso alla banda larga, diffusione dell’e-commerce, servizi di e-gov poco utilizzati, limiti normativi, scarse competenze digitali: questi per il Dag gli ostacoli che si frappongono a un più ampio sviluppo dell’economia digitale nel Bel Paese.

Anticipandone alcuni dati, ma rimanendo opportunamente “abbottonata” rispetto ai risultati salienti, già qualche giorno fa Akamai aveva dato il polso di una situazione in cui l’economia digitale, in Italia, non brilla. Non ancora per lo meno.

Accanto ai numeri relativi al secondo trimestre 2011 contenuti nel Rapporto sullo stato di Internet promosso dalla piattaforma intelligente, ci sono quelli elaborati da Dag, il Digital Advisory Group di cui anche Akamai fa parte.

Gli stessi che, illustrati da Vittorio Terzi, nella duplice veste di senior director di McKinsey & Company, Italy, e di presidente dell’AmCham, hanno messo in evidenza come, a oggi, «nel nostro Paese, l’economia digitale corrisponderebbe “solo” al 2% del Pil, per un impatto pari a circa 30 miliardi di euro», ma che, con gli opportuni accorgimenti, da qui al 2015, potrebbero raddoppiare.

E spingere ben oltre i numeri snocciolati da Terzi in merito a 700mila posti di lavoro collegati al Web creati negli ultimi 15 anni, «non solo nei settori direttamente collegati a Internet», è l’opportuna precisazione.

Con Internet cresce l’occupazione
E che il mondo online sia direttamente connesso alla creazione di posti di lavoro lo dicono anche i risultati della ricerca condotta dal McKinsey Global Institute in 13 Paesi del mondo, Italia compresa, secondo i quali, in tutti i settori, il Web avrebbe creato una media di 2,6 posti di lavoro per ogni posto eliminato.

Certo, con una media di 1,8 il Bel Paese è ben lontano dai 3,9 posti di lavoro stimati in Svezia per ogni posto eliminato, ma «resta pur sempre il fatto – ricorda Terzi – che, anche da noi, parliamo di un contributo netto di circa 320mila nuovi posti di lavoro».

In tal senso, a guardare con crescente interesse a Internet dovrebbero essere soprattutto le Pmi che, in Italia, non sfruttano ancora le potenzialità del digitale, «visto che, da noi, per compensare ogni posto di lavoro reso eccedente dal Web sono stati creati solo 1,03 posti di lavoro alternativi, nonostante negli ultimi tre anni il 78% dei benefici totali in termini di aumento dei ricavi e maggiore redditività sia da attribuire alle imprese tradizionali e solo il 22% ai “pure player”».

Ciò detto, stando a Terzi, «proiettando la tendenza attuale, secondo la quale l’economia digitale registrerebbe un tasso di crescita 10 volte superiore a quello del PIL, nell’arco temporale dei prossimi quattro anni, anche l’Italia potrebbe raggiungere una penetrazione prossima al 4%». Ma non solo.

Richiamando le stime espresse nel Web Intensity Index elaborato da McKinsey nel 2010, Terzi ricorda che, «se il nostro Paese fosse in grado di colmare anche solo della metà la distanza che ci separa da Inghilterra, Germania e Francia in termini di e-ngagement, ossia in intensità nell’utilizzo di Internet, di e-nvironment, ossia in accesso alle infrastrutture e diffusione della banda larga, e di e-xpenditure, vale a dire in termini di volumi di e-commerce e di pubblicità online, il contributo complessivo dell’economia digitale sul nostro Pil potrebbe equivalere a 25 miliardi di euro di valore aggiuntivo».

Scarsa disponibilità di rete
Per riuscirvi occorre, però, metter mano a cinque ostacoli oggettivi alla crescita dell’economia digitale. «L’insufficiente accesso alla banda larga è il primo» suggerisce Terzi forte dei dati diffusi dal terzo rapporto promosso da Cisco sul Broadband Quality Score, secondo i quali le performance misurate in termini di velocità di connessione e di disponibilità di rete, posizionano l’Italia al 40esimo posto tra i 72 Paesi del mondo analizzati.

«Il tutto – è l’ulteriore precisazione – con un valore prossimo al limite minimo necessario per un uso agevole delle applicazioni Internet attuali e una velocità media di download e upload dalle due alle tre volte inferiore rispetto a quelle di Francia e Germania che, da qui a qualche anno, potrebbero rappresentare un vero problema anche considerato che, in Italia 4 milioni di persone non sono raggiunte dalla banda larga e solo 2,5 milioni beneficiano dei collegamenti in fibra ottica».

Troppi ostacoli culturali all’e-commerce
Misurato nell’Osservatorio eCommerce B2C della School of Management del Politecnico di Milano su dati Eurostat a fine 2010, nonostante il tasso di crescita a due cifre (+17%) ipotizzata per la fine di quest’anno in merito al commercio elettronico nostrano, utenti finali e Pmi rimangono frenati da due fattori. «Contro la diffusione dell’e-commerce – conferma il refente di Dag – remano croniche diffidenze nelle procedure di vendita e la percezione di inaffidabilità e scomodità delle consegne, che relegano allo 0,7% del PIL l’e-commerce in Italia rispetto all’oltre 1% di Francia e Germania e a quasi il 3% del Regno Unito».

Servizi online della Pa poco divulgati
Ciò detto, nonostante il Piano e-gov 2012 lanciato nel 2009 dal ministro per la Pubblica amministrazione e l’Innovazione, Renato Brunetta, «ci pone ai primi posti, a livello internazionale, in termini di informatizzazione della Pubblica amministrazione e di disponibilità di servizi online», rispetto a un tasso compreso tra il 50 e il 60%, che caratterizza i Paesi Nordici in termini di popolazione che fa uso dei servizi di e-government, in Italia la medesima percentuale stimata dalla Commissione europea non supera quota 20.

«Come se non bastasse l’esperienza di accesso ai servizi online, quali trasmissione di dichiarazioni del reddito, richiesta di certificati di varia natura, posizione pensionistica e altro, non sempre è positiva».

Norme territoriali vs economia globale
Non va meglio rispetto ai limiti individuati non solo dal Dag nel quadro normativo italiano, dove la territorialità dell’approccio limita la natura globale dei servizi digitali «in special modo per quanto concerne aree normative di forte interesse come la privacy e la responsabilità degli Internet service provider che, se non proprio a livello globale, dovrebbero perlomeno essere disciplinate su base europea e non certo nazionale».

Mancano le competenze digitali
Infine, l’accento non poteva che cadere sulla carenza delle competenze digitali «indispensabili per garantire l’innovazione e nuove opportunità di business» e già chiamato in causa dall’Agenda Digitale della Commissione europea che cita il potenziare le competenze digitali come uno degli otto pilastri della propria politica. «Peccato – è la considerazione finale di Terzi – che la maggior parte delle università italiane non eroghi corsi di studio dedicati alla formazione degli imprenditori digitali».

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