Istat 2010: l’Italia che arranca

Dal Pil all’occupazione femminile, dai giovani in cerca di impiego al potere di acquisto delle famiglie: la fotografia scattata è quella di un paese ai margini rispetto ai grandi dell’Unione europea. Ed è l’unico a non aver registrato segni di ripresa incoraggianti.

Colpita economicamente insieme alla Germania dalla maggior caduta del Prodotto interno lordo, l’Italia è l’unica nazione, tra i grandi paesi dell’unione economica e monetaria dell’Unione europea (Uem) a non aver registrato segni di ripresa incoraggianti. A dirlo sono i dati diffusi dall’Istat che, in merito all’intensità della crisi del 2008-2009, parla di un Pil che, lo scorso marzo, al netto degli effetti di calendario e della stagionalità, resta inferiore di oltre 5 punti percentuali rispetto ai primi tre mesi del 2008.

Ma non solo. Mentre in Germania e nell’insieme dei paesi dell’Uem il recupero è stato completo, nel nostro Paese, il divario da colmare è superiore ai 2 punti percentuali e fotografa l’immagine dell’economia europea cresciuta meno nell’intero decennio 2001-2010, con un tasso medio annuo pari allo 0,2% contro l’1,1% dei paesi dell’unione economica e monetaria dell’Ue. A farne le spese sono, soprattutto, i lavoratori del Mezzogiorno, protagonisti di oltre la metà delle 532mila unità perse per strada nel biennio 2009-2010, tanto che, a nel 2010, se circa un giovane su due risultava occupato nel Nord, in Sud Italia la percentuale scende a meno di 3 su 10.

Come se non bastasse, i cosidetti ‘Neet’ (Not in education, employment or training), ossia i ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non lavorano e non frequentano alcun corso di istruzione o formazione, in Italia rappresentano il 22,1% della popolazione nella medesima fascia di età, in crescita di 134mila unità rispetto al già elevato 20,5% registrato nel 2009, per un totale al di sopra dei due milioni di giovani coinvolti. Gli stessi che, in termini di condizioni difficili, vanno di pari passo con una condizione femminile altrettanto grave.

A fronte di un’occupazione rosa che, nel 2010, è rimasta sostanzialmente stabile, quello registrato dall’Istat è un peggioramento della qualità del lavoro, con l’occupazione qualificata, tecnica e operaia scesa di 170mila unità a fronte di un incremento di lavoratrici non qualificate, pari a 108mila unità. Come se non bastasse, a crescere è anche il part time forzato, che ha visto alzarsi di altre 104mila unità rispetto al 2009 le lavoratrici interessate mentre, nel Bel Paese, il 40% delle laureate occupano una posizione che richiede una qualifica più bassa rispetto a quella posseduta.

Così, se la disparità salariale che permane in Italia non sembra trovare apparenti soluzioni, a far riflettere dovrebbe essere il dato secondo il quale la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, pari al 46,1%, continua a essere molto più bassa da noi che nel resto d’Europa, dove i punti percentuali registrati nel 2010 erano 58,1%. Sommando questi dati all’allarmante dichiarazione secondo cui, nel 2008-2009, circa 800mila madri avrebbero dichiarato di esser state licenziate o messe in condizioni di doversi dimettere in occasione o a seguito di una gravidanza, appare chiaro come anche la situazione delle famiglie nostrane non possa apparire rosea.

E poco consola che, lo scorso anno, il reddito disponibile delle famiglie sia cresciuto dell’1% visto che, con la variazione dei prezzi registrata negli scorsi 12 mesi, il potere di acquisto delle famiglie ha subito un’ulteriore riduzione dello 0,5%, e la propensione al risparmio abbia toccato quota 9%, come non si verificava dal 1990. Dal Pil all’occupazione femminile, dai giovani che non trovano lavoro alla situazione delle famiglie, dopo i trasferimenti sociali, le persone a rischio povertà da noi sono il 18,4%, rispetto al 16,3% registrato nel resto d’Europa.

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