I contenuti e la torre di Babele

I canali digitali sono troppi e troppo intrecciati e con troppi linguaggi. Si continua a parlare di quali gestire e come farlo strategicamente, ma forse è tardi. E gli esperti sembrano proporre di lasciar andar i contenuti per la loro strada.

Oggi l’elenco dei canali e le loro forme e tempi sono di straordinaria varietà e rendono oggi impossibile distinguere tra creazione, cura (veicolazione volontaria) e diffusione (veicolazione involontaria e alle volte virale) dei contenuti. La speranza di una volta, ovvero che contenuti ben realizzati per ciascuno dei canali scelti per lo storytelling aziendale diventassero asset a consultazione in continuo aumento nel tempo, è quasi completamente naufragata nell’imprevidibilità dei rigagnoli nei quali la frammentazione del web spinge clic e link.

Come se non bastasse c’è il ritorno del blog come strumento. Il primo esponente del mondo social, prepensionato dopo due-tre anni d’esistenza e lasciato nel limbo dal 2009 ad oggi, sta trovando nuovi sostenitori, secondo una ricerca Iab.

Molti professionisti poi s’impegnano nell’aumentare le aziende, rendendo ciascuno di noi un brand in quello che è il personal branding, ovvero come stare nel mondo digitale in modo da aumentare la fama (indice d’ascolto) e reputazione (indice di gradimento).

Non si sa bene, quindi, come comporre un percorso di comunicazione su più canali, frammentando la storia in più componenti, ciascuna declinate con grammatica e semantica specifica per il mezzo. Anche in contraddizione con il prodotto stesso, al limite, se è necessario farsi vedere in un micromercato che ha quella come regola d’ingaggio del consumatore.

In linea teorica una soluzione sarebbe possibile: strumenti come Overblog permettono di gestire direttamente la cura dei contenuti in maniera semiautomatica. Questo approccio può essere utile per il personal branding, dove in generale i mezzi (tempo e denari) sono limitati rispetto a quelli di un’azienda. Ma i pareri sono discordi: mettere tutti i propri contenuti a disposizione di un unico contenitore/provider è un’operazione in sé sempre da evitare. Ancora più forte è la voce di un’altra obiezione: i canali vanno tenuti separati e non unificati, in quanto insieme confondono e non interessano gli utenti che invece, canale per canale, si riconoscono in un’unica declinazione.

Forse è necessario fare un passo indietro. Storicamente l’informazione è stata centrata su produzione e consumo generate dall’alto, ma molto poco è stato detto sulla sua circolazione e di come varia se si propaga dal basso.
Di questo ha parlato Henry Jenkins, riconosciuto guru del transmedia, nel suo primo talk italiano allo Ied di Roma lo scorso 9 giugno. Jenkins ha parlato pochissimo di transmedia e abbastanza di spreadable media, che è il suo attuale focus. Più che la generazione del messaggio, Jenkins parla ora degli stili di circolazione. Abbiamo sempre davanti casi particolari di contenuti che nascono nel disinteresse e che improvvisamente ed imprevedibilmente diventano di successo. Oggi come oggi li chiamiamo exploit: succedono, polarizzano sogni e sforzi ma non sono replicabili quindi la realtà è diversa. E anche a costo di farselo piratare, aggiungiamo noi, il contenuto deve circolare anche senza controllo. “If it doesn’t spread, it’s dead“, dicono gli appassionati di spreadable media e di participatory culture. Con buona pace della content creation, della curation e della qualità del contenuto in sé.

“Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la Terra” (da Wikipedia).

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