Giovani imprenditori e innovazione. Dialogo complesso

Manager di grandi aziende si confrontano con le nuove leve per parlare di innovazione. Ma rimane un po’ di distanza

Metti un venerdì sera a Milano. Sono le 17,30, le strade attorno alla città si affollano di auto in corsa verso il weekend, lontano dall’orrida metropoli, e i bar si preparano all’arrivo dell’orda dell’aperitivo che secondo il New York Times rappresenta il modo più economico di mangiare a Milano visto quello che passa sui tavoli dei locali.


Incuranti del venerdì che sfuma un centinaio di giovani imprenditori si raduna in una sala di Assolombarda per parlare di innovazione. Guidati da Francesco Sacco, docente del Centro di ricerca EntEr dell’Università Bocconi, ascoltano attenti i manager delle grandi aziende che raccontano come si pratica l’innovazione. E’ il primo di una serie di incontri che si svolgeranno lungo la Penisola dove si parlerà anche di green, argomento quanto mai di moda.


Sacco è inflessibile. iPhone in pugno dà cinque minuti a testa ai relatori (Andrea Facchini Nokia, Stefano Lavizzari Vodafone, Attilio Lentati i-Faber, Salvo Mizzi Telecom, Francesco Caria Eni, Simone Lonostro Enel, Fabrizio Milano D’Aragona Google) che raccontano come in Google i dipendenti possono dedicare il 20% del loro tempo lavorativo a progetti inventati da loro (nascono così Gmail e Google News), che all’Enel, stimolati dal vertice, i dipendenti hanno sfornato 3.500 idee 39 della quali sono state attuate con premi per i vincitori.


Ernesto Ciorra, consulente di Ars et Inventio società specializzata nell’innovazione, spiega che chi riesce a innovare “lo fa perché vuole innovare” e che “l’innovazione è un metodo”. “La differenza tra chi vuole innovare e chi non vuole – prosegue – è che chi non vuole non valorizza gli asset che ha in casa. Chi vuole crede nelle persone”.


“Per innovare è necessario avere una struttura aziendale piatta”, suggerisce D’Aragona di Google, e Lavizzari di Vodafone ricorda che “l’innovazione non deve stare in una torre d’avorio”.


“Ma io – obbietta uno dei partecipanti – ho tre aziende meccaniche in Italia, Francia e India. L’80% dei dipendenti sono operai e non dicono niente. Gli operai non mi possono dare idee”. Chi parla, si saprà poi, non è un figlio di papà che l’azienda l’ha ereditata ma un imprenditore vero che ha anche un paio di master alle spalle.


I relatori hanno gioco facile. Parte Sacco ricordando che in Toyota, ogni dipendente sforna 16 idee l’anno e il 95% delle innovazioni arrivano proprio dagli operai. E poi, ricordano gli altri, l’azienda deve essere strutturata in modo che l’innovazione possa essere recepita. Occorre strutturare il modo con cui si raccolgono i feedback dei dipendenti e dei clienti. Ma se si è convinti che i dipendenti, operai o impiegati, non possono fornire innovazione, non se ne esce.
“Si è succubi di un paradigma”, sentenzia Ciorra. Invece, bisogna sistematizzare un processo che permetta di attribuire il merito a chi avuto l’idea perché molti non si esprimono solo perché hanno paura di non essere ascoltati o perché temono che qualcuno si appropri della pensata.


I relatori parlano di team interfunzionali che danno buoni risultati, perché chi l’ha detto che una buona idea di marketing non possa arrivare dall’amministrazione? “L’innovazione cammina sulle gambe della gente – spiega Lavizzari di Vodafone -. I manager Vodafone infatti devono essere aperti”. Non a caso quelli che il carrier individua come talenti passano attraverso differenti funzioni aziendali e poi per un paio d’anni vengono mandati all’estero. In questo periodo devono, per esempio, mostrare di essere capaci di recepire le idee che arrivano dai loro team.

Non c’è uno che pensa e gli altri che eseguono. L’idea è frutto di collaborazione. Sul Web questo si chiama 2.0 ma la platea non sembra molto avvezza alla filosofia del nuovo Web. I loro problemi sono più terra a terra. “Lavoro nell’azienda di famiglia dove secondo mio padre vige una dittatura democratica. Cosa mi consigliate di fare”, chiede uno. “Tipica situazione italiana dove la dittatura è certa – risponde Sacco – e la democrazia un po’ meno. In questi casi funziona la legittimazione esterna. Bisogna conquistarsi un posto al sole in autonomia e poi tornare nell’azienda di famiglia”.

Tradotto prendi, giocati le tue carte dove il tuo cognome non conta, meglio all’estero, e poi torna e tuo padre ti guarderà in modo diverso. La dittatura potrà trasformarsi in cogestione. Questi sono i problemi dei giovani imprenditori che lasciano una sensazione di distanza dagli “innovatori” che devono rispondere a domande del tipo. “Ma come ci si regola con i dipendenti antipatici?”. “Siamo manager di un certo livello – risponde secco Lonostro dell’Enel -. Ci si passa sopra. Il problema vero è lottare contro chi ostacola l’innovazione sfidandolo per esempio a monetizzare il suo non fare”. E’ un impegno anche “fisico” sostiene il giovane marketing manager dell’Enel.
Per i giovani imprenditori il percorso verso l’innovazione appare ancora lungo.

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