Favorire la creazione d’impresa. Ecco cosa chiedono le startup italiane

Trentaduenni, in prevalenza di sesso maschile, residenti al Centro-Nord, laureati e in possesso di un master. I talenti fotografati da Mind the Bridge Foundation cercano capitali, alleanze e un contesto normativo più “startup friendly”.

Trovare un partner strategico che possa supportare le startup Web nei processi di sviluppo della business idea portando le competenze al gruppo imprenditoriale esistente.


Preso atto di quali sono le caratteristiche che un’idea imprenditoriale deve avere per attrarre a sé i giusti capitali, vediamo più più in dettaglio i risultati dell’edizione 2011 della survey presentata da Mind the Bridge Foundation con il supporto scientifico del CrEsit dell’Università dell’Insubria di Varese intitolata “Startups in Italy”.

Analizzata la “galassia” delle startup italiane che partecipano annualmente alla sua Business Plan Competition – composta in prevalenza da realtà che operano al nord (39% dei casi) e al centro (34%) in imprese Web based (60%) o Ict (25%) con un ancora limitata presenza femminile -, la prima evidenza a cui è giunta l’iniziativa non profit messa a punto da Marco Marinucci è che il modello di finanziamento resta ancora la formula più diffusa.

Stando alle stime, sarebbero almeno un migliaio le richieste di finanziamento che i venture capital fund e i business angel network raggruppati intorno al gruppo informale che raccoglie i principali investitori italiani, denominato Vc Hub, riceverebbero ogni anno.

Nonostante il 76% delle richieste di finanziamento da parte delle startup più strutturate sia indirizzato a venture capital, il 40% del panel analizzato dichiara di aver reperito fondi nelle maniere più disparate.

Parliamo di bootstrapping, ossia di risparmi dei fondatori e fondi raccolti all’interno del nucleo familiare o della rete di conoscenti, meglio noto come sistema “family, friends and fools”, ma anche – nell’8% dei casi – di grant, vale a dire finanziamenti destinati al supporto di attività di ricerca in ambito universitario per coprire, in entrambi i casi, parte dei costi di sviluppo dell’idea nelle sue fasi iniziali.

Considerato che il 23% del campione a disposizione ha reperito finanziamenti da fondi di investimento collegati ad attività di incubazione e business development, il ruolo delle venture capital, dei business angel e dei fondi di investimento specializzati nel capitale di rischio rimane, però, ancora del tutto marginale nel nostro Paese.

Ciò detto, restringendo l’analisi alle Top15 semifinaliste dell’edizione 2011 di “Startups in Italy”, appare chiaro come le fonti di funding siano ancora più articolate ed evolute con il 40% circa dei rispondenti che dichiara di aver avuto accesso al seed financing, il 7% a business angel e il 13% a venture capital per una media di capitale di circa 71mila euro.

Il business che aiuta il business
Inoltre, come già anticipato, il 40% di tutte le migliori startup presenti all’iniziativa confermano di essere in cerca accordi strategici di partnership, quasi a dire che i capitali servono, ma il successo non passa solo da quelli.
Un ambiente più favorevole si costruirebbe, appunto, con alleanze, contatti e conoscenza maturate negli anni ma anche con una “propensione alla mobilità” superiore rispetto alla media che solo le startup migliori hanno portato in evidenza.

Ancora una volta, i dati mostrano come i talenti siano attratti da Università con “alta reputazione” e un’offerta di programmi di formazione di eccellenza di cui la nascita di startup “risulta una naturale conseguenza”. Di qui la criticità di
investire nella ricerca e formazione universitaria se si vuole avere un ritorno in termini di nuove imprese innovative.

Constatando, però, che il popolo degli startupper manifesta una spiccata mobilità, anche internazionale, e che una percentuale sempre più importante decide di costituirsi all’estero, la strada per ottenere un ritorno in termini di nuove imprese innovative ed evitare oltre a fughe di cervelli, anche un massiccio “corporate drain’”, passa obbligatoriamente da investimenti in ricerca e formazione universitaria.

Anche perché la fotografia scatta da Mind the Bridge parla chiaro.

A fronte di un ruolo ancora numericamente inferiore delle imprese operanti nelle clean technologies (10%) e in ambito biotech/life sciences (5%), prima dell’avvio della propria attività imprenditoriale, l’80% degli startupper ha lavorato in azienda mediamente per 6-7 anni a conferma che quello dell’imprenditore è un mestiere che si impara sul campo e che richiede conoscenze di alto livello e una certa esperienza, anche all’estero.

Come se non bastasse, un founder su cinque di quelli contemplati da Mind the Bridge, sarebbe alla sua seconda startup rafforzando, in questo modo, sia l’importanza del “pivoting”, sia il carattere seriale del “mestiere dell’imprenditore”, che si perfezionerebbe solo facendolo, visto e considerato che, nel 20% dei casi, la precedente esperienza imprenditoriale sarebbe stata fatta all’estero, che il 75% delle aziende costituite in precedenza sono ancora attive e che nel 61% dei casi gli imprenditori continuano a esservi coinvolti.

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