E’ Internet il peccato dell’Occidente?

Passare dalla convertibilità in oro a quella in tidbit d’informazione ha creato un terremoto. Lo tsunami potrebbe non venire, ma restano in piedi solo le costruzione più solide. Per chi ne approfitterà.

Ovunque si vada, l’argomento centrale resta ancora la crisi economica dell’anno scorso, quando finirà e se andamenti borsistici come quelli della scorsa settimana sono di assestamento o di preavviso. Nelle righe che seguono porto alle estreme conseguenze alcuni punti che collegano beni, tecnologia e valute. Sono punti forti, sui quali spero di richiamare attenzione e commenti.
Cercando l’inizio della crisi e quindi le sue ragioni, c’è chi indica l’abbandono della convertibilità del dollaro in oro (1971). Un tempo tutte le valute erano avatar di una prefissata quantità d’oro, un sistema che bloccava le valute a tassi fissi e riguardava gli scambi sia dei privati, sia degli Stati.
Questo sistema di fatto congelava il valore presunto di beni e servizi, impedendo l’espansione del valore delle aziende e della capacità di spesa dei Governi, quindi per avere una crescita più disinvolta andava abolito e rimpiazzato con un sostituto più facile da riprodurre.

Il dollaro d’oro
Il fattaccio avvenne nel 1944 a Bretton Woods, in tempo di guerra, quando l’oro fu sostituito dal dollaro con un contestatissimo accordo che incrementava il potere economico dei governi. Oltre vent’anni dopo, nel 1966, Alan Greenspan scriverà: “in the absence of the gold standard, there is no way to protect savings from confiscation through inflation“: in assenza della convertibilità con l’oro, non c’è modo (per il singolo) di proteggere i risparmi da quella confisca che è l’inflazione.
Ma l’inflazione è solo una delle facce della confisca: c’è la svalutazione (statale), c’è la spesa pubblica (statale), c’è la truffa (privata) dei titoli tossici.
Dopo le spese per la guerra del Vietnam, nel 1971 Richard Nixon abolì la conversione del dollaro in oro, avviando l’era della conversione a tasso variabile tra valute. Sempre nel 1971 il francese Jacques Rueff pubblicò il libro Le Péché monétaire de l’Occident, riflettendo sulla successione di crisi ed entusiasmi che l’abbandono della conversione dell’oro avrebbe lasciato in eredità ai mercati mondiali.
Curiosamente, ancora nel 1971 l’italiano Federico Faggin realizzava l’Intel 4004, il primo microprocessore commerciale della storia ed il primo elemento non dell’ICT ma della sua rivoluzione sociale.
Son passati altri quarant’anni. Via via l’economia s’è basata sempre meno su beni reali e sempre più sui prodotti finanziari definiti “derivati” e “future”, che per gran parte sono una scommessa sul valore futuro di un bene. Oggi come oggi tutto è un “future”, anche le banconote che abbiamo in tasca: non si sa a quanta benzina o patate corrisponderanno all’incasso.

Il real-time web protegge?

Da qualche tempo mi chiedo se Internet abbia avuto un ruolo in tutto questo. La mia risposta è sì, il ruolo c’è ed è anche piuttosto potente. Finché beni ed informazioni seguono un percorso a più tappe prestabilite, la catena di creazione dell’aspettativa e controllabile. Ma internet è una rete di comunicazione in tempo quasi reale, con quel quasi che può essere compresso vicino al limite della velocità della luce.
Finché questa caratteristica viene sfruttata da pochi sistemi, foss’anche quelli borsistici, il cambiamento è forte ma non drammatico. Nel momento nel quale si estende a tutto il mondo connesso diventa quello che chiamiamo “real-time web”: se tutti conoscono le stesse cose nello stesso istante.
Chi ricorda il film “La stangata”? E’ il racconto d’una truffa basata sulla ritardata comunicazione dei risultati delle corse equine (per inciso, le scommesse su eventi sportivi mi sembrano un ottimo esempio di future).
Se non c’è ritardo non c’è truffa, non c’è aspettativa e il valore della valuta (e dei beni) resta quello reale, molto molto basso. D’ora in poi sarà più difficile stangarci: è un bene per chi viene ora, è stato un male per chi c’era prima.
Per usare un’espressione ad effetto, siamo passati dalla convertibilità in oro a quella in tidbit, gustosi bocconcini d’informazione sui quali concentriamo la nostra attenzione. Spesso mi trovo a pensare che internet è guerra.
Finora, però, ho ritenuto che fosse una guerra tra organismi nazionali ed entità transnazionali. Non vorrei che diventasse una guerra civile, all’interno di Stati non più sovrani, privati del controllo sull’inflazione che oggi sembra operare non sulla valuta, ma sull’informazione.

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