Alla ricerca del Roi 2.0

Se esiste, questo indicatore dev’essere determinato nel suo reale significato. Altrimenti dobbiamo dargli un altro nome. E attenzione alle case history sull’Enterprise 2.0.

Un argomento recentemente molto dibattuto in rete è come misurare le prestazioni aziendali in presenza di un ambiente 2.0. Personalmente non amo molto questa formulazione, in quanto lo stesso 2.0 è una formula mediatica che giustifica chi non ha saputo gestire il lento ma costante cambiamento aziendale, base della vera e diffusa innovazione, nascondendosi dietro monoliti del passato o risibili progetti pilota.

La letteratura in circolazione, però, sta diventando pesantemente fuorviante, per cui riportarla e commentarla può essere di aiuto agli interessati che non abbiano il tempo di scartabellare tra articoli, post e commenti.

In particolare sta avendo grande eco un report che affida ad un’iniziativa 2.0 un Roi -return on investment- pari a “50x”, ovvero il 5.000 per cento. Qualsiasi persona non del tutto priva di buon senso capisce che l’affermazione va riferita ad un contesto specifico al di fuori del quale non è assolutamente replicabile. Se però qualcuno si prende la briga di farne una case history e di metterla in rete, vuol dire che è necessario sapere quali siano le nuvolette di probabilità che quel report affida alle parole 2.0 e Roi. Perché in periodi di cambiamenti veloci anche le case history, apparentemente innocue, possono trarre in inganno.

Il 2.0 aziendale
Partiamo dal “due punto zero”, intendendolo in senso strettamente informatico, dato che è possibile individuarne una valenza anche nel mondo di tutti i giorni.
1) Il 2.0 ha senso per chi fa muove l’azienda a scatti, senza possedere la cultura del cambiamento continuo;
2) solo chi apre oggi un’azienda può scegliere se operare in 2.0 puro, unico ambiente nel quale tutto ciò avrebbe senso;
3) le aziende preesistenti al 2.0 hanno un complesso ciclo di attività che s’incrocia con quello prodotto dal 2.0 in maniera determinante ma inconoscibile.
Perché questa espressione abbia senso ci dev’essere un mondo integralmente 2.0, altrimenti i risultati delle azioni imprenditoriali non sono separabili nelle componenti vecchia o nuova e restano visibili solo nel loro insieme.

Roi: cos’è e dove si applica
Il titolo pone una domanda più che ironica, ridicola per il lettore. La formulazione più secca sarebbe stata molto più lunga: ovviamente, il ritorno dall’investimento è il rapporto tra profitto e spesa, misurato in punti percentuali. Perché questa espressione abbia senso sono necessarie due quantità: un investimento ed un profitto, entrambi espressi in termini monetizzabili.
Ancora più interessante è la ripartizione del Roi in due fattori, uno legato al profitto e l’altro agli investimento. La si ottiene introducendo un terzo elemento: il fatturato. Il Roi-profitto è profitto/fatturato; il Roi-investimento è fatturato/investimento. Tutta roba vecchia, anzi vecchissima.

Un social Roi del 5.000 per cento?
TransUnion ha sviluppato un sistema interno di social networking con pochi soldi, evitando il ricorso dei dipendenti ai Facebook di turno ed implementando soluzioni specifiche per nuovi settori di attività. Poiché la spesa in software sociale è il 2% di quella in ICT classica (per risolvere lo stesso problema), il software sociale ha efficacia 50 volte quella dell’ICT classica.
Messo nei termini reali, già si vede che questo sistema lascia il tempo che trova ed è tutt’altro che una valutazione del “Social Roi“. Un ulteriore dettaglio metterà ulteriormente in chiaro i fatti: il software sviluppato da SocialText è costato 50 mila dollari reali, mentre i 2,5 milioni di dollari “risparmiati” sono una valutazione di hardware, software e servizi che i dipendenti avrebbero richiesto nei prossimi quattro-cinque mesi senza la soluzione ad-hoc. Di fatto la valutazione del risparmio nel primo anno è ben più alta, tra i 5 e gli 8 milioni di dollari, configurando quindi un bel 160x!
Dollari virtuali, quindi.
La situazione si spiega da sola e non è necessario prendere posizione. E’ invece fondamentale stigmatizzare l’uso del termine “Roi” per questo caso: la divisione tra reale e virtuale non è possibile e va evitata accuratamente. L’intervista di partenza era giornalisticamente corretta [ Transunion finds cost savings, seeks more ], ma nei successivi rimbalzi sui blog tecnici i risparmi sono diventati guadagni, ed ecco la magagnetta.
Probabilmente è stata saggia TransUnion ad abbracciare il paradigma sociale, e certamente ha speso una cifra assolutamente accettabile. Probabilmente con il nuovo strumento sarà più competitiva e ciò si tradurrà in maggiori ricavi, aumentando il Roi rispetto a quello che si sarebbe avuto senza questo sviluppo.
Ma la valutazione del Roi è sbagliata, così come la definizione di questo “Roi risparmioso” va annoverata tra le invenzioni giornalistiche e non nelle case history con attendibilità finanziaria.

Sulla valutazione del profitto in letteratura esistono altri tentativi, più fedeli al concetto di base. Personalmente ritengo che si tratti della deformazione di concetti superati, utili a vendere consulenze in un mondo nel quale i decisori di spesa sono tecnologicamente inadeguati. Qualche mese fa proposi un’intervista al titolare di un’azienda internazionale di consulenza aziendale, la cui filiale italiana aveva appena erogato un costosissimo seminario sull’Enterprise 2.0. Le domande vertevano sul Roi e sulla sua adattabilità o riscrivibilità nel mondo 2.0. Ad una prima entusiastica adesione ha fatto seguito un rifiuto al colloquio, adducendo come motivazione la specificità delle mie domande. Tutte e cinque gl’incredibili quesiti erano lunghi meno di 50 caratteri.

In un successivo articolo proverò a proporre un’altra misurazione del Roi che sta cercando di farsi strada, in varie misure, non solo in Rete ma anche nei convegni specializzati.

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