AgCom – Fiber Nation? Non l’Italia

Altro che confini nazionali: la geografia, dice Calabrò, ci consegna un ruolo internazionale che non sfruttiamo. Leggi inadatte e assenza d’investimenti potrebbero ampliare il rischio di “Federalismo infrastrutturale”. Ma le idee ci sono.

La banda larga europea costa tanto perché bisogna sotterrare i cavi e metà dei cittadini non sente il digital divide perché il settore pubblico non gli offre a casa i suoi servizi. Nel settore l’Italia è indietro e se tutto va come sembra, stavolta arretrerà ancora di più entro pochi anni.
Questi alcuni dei punti, davvero interessanti, esposti con chiarezza nella Settima tavola rotonda con AgCom, organizzata da Business International per discutere con gli operatori di settore di tutti gli argomenti relativi alle telecomunicazioni.
“Il rischio attuale di restare indietro è stato amplificato dal rinvio dello stanziamento di 800 milioni deciso dal Cipe” per la banda larga.
Così Corrado Calabrò, presidente AgCom, ha aperto l’argomento del digital divide. L’investimento, relativo all’accesso alla rete di quei 2,7 milioni di italiani che oggi non hanno la banda larga, è per l’oggi e non per il domani. In Giappone con 50 miliardi di dollari cableranno in fibra l’intera nazione, ed altro succede in Corea, che è ancora più all’avanguardia; analogamente in Australia e negli States. In Francia la fibra sarà disponibile per tutti entro il 2012.
Elementi chiari e pragmatici hanno contraddistinto la sessione istituzionale di apertura, contrariamente a quanto succede di solito in questo tipo di eventi. Una rete nazionale in fibra costa 10-15 miliardi di euro e i suoi problemi sono il finanziamento e la governance. In Europa non si può finanziare con semplicità, a parte nelle “aree bianche”, come ha dimostrato la recente bocciatura della Germania. “Mi chiedo se non sia il momento di ripensare le norme europee”, dice Calabrò e poi sarà confortato dal parere di molti altri relatori.
“Gli studi dimostrano che il prezzo di mercato dell’abbonamento mensile in banda davvero larga sarebbe di 80-90 euro/mese”, ha detto Fabio Colasanti della Commissione Europea (DG Information & Media Company). Per gran parte, questi costi derivano dalla scelta normativa di posare i cavi sottoterra e non con fili aerei, com’è in Giappone e Corea. “Questi costi dovrebbero essere pagati dagli Stati”, garantisce Colasanti, ma non in maniera cieca: “a Roma s’è derogato sulla profondità di 150 cm per qualsiasi tubatura, riducendola a 30 cm” e quindi diminuendo i costi senza creare problemi.

Interpretare la normativa locale
Bisogna sempre ricordare che edifici e ponti sono un freno alla diffusione delle reti wireless mentre la fibra non ha questi problemi. La recente normativa europea permette infatti ai Governi di intervenire su svariati elementi per ridurre i rischi imprenditoriali ed aumentare le opportunità.
Tre i punti fondamentali: promozione del risk sharing tra gli imprenditori, condivisione del risk premium e regole di migrazione da rame a fibra. Replicare meccanicamente la vecchia normativa per il rame sarebbe un disastro.
“In Olanda un’azienda privata ha trattato con il Governo un modello per il risk premium che è stato accettato dall’Unione europea e sarebbe replicabile in Italia”, ha informato il presidente.
“E’ un punto sul quale sembra arrivato il momento d’intervenire”, confermerà più avanti Lisa di Feliciantonio (Fastweb).
Anche in Italia esistono alcuni esempi d’intervento regionale, come a Trento, in Emilia e a Roma, ma bisogna far attenzione all’evoluzione del federalismo infrastrutturale che potrebbe avere qualche problema se il governo non operasse bene e per tempo.
“Da tempo per la fibra italiana propongo un modello a macchia di leopardo, non incompatibile con l’idea di Fiber Nation”, rilancia Calabrò, ritenendo necessario un progetto nazionale coeso e condiviso, coordinato da un’ideale cabina di regia.

Una discontinuità tecnologica

“La geografia ci favorisce per la collocazione di snodi internazionali”, ha continuato il Presidente dell’Agenzia, ma non sfruttiamo questo punto e quindi rischiamo di essere scavalcati da locazioni meno fortunate ma più attente.
“A livello politico ed imprenditoriale manca il momento di discontinuità” con il passato.
Con le dovute attenzioni ad ambienti sociali e legislativi diversi come l’Italia europea e gli Stati Uniti, anche Kevin Martin sembra fargli eco: “dobbiamo bilanciare la protezione dei consumatori con la tutela degli investitori”, dice Martin, ex presidente della FCC (ente regolatore statunitense).
Gli Stati europei potrebbero fare molto di più. La banda larga è disponibile al 93% dei cittadini, ma solo una metà la usa. Anche per la promozione dell’uso della rete gli Stati possono far moltissimo.
Un esempio? Se alcuni servizi pubblici fossero disponibili solo in rete, la fruizione della rete aumenterebbe, i costi diminuirebbero e la qualità della vita dei cittadini aumenterebbe.

Ma attenzione, ammonisce Colasanti: nei Paesi operare sulla rete è più facile.
“Dopo quasi un anno del pacchetto dell’Unione”, dice il direttore dell’Information & Media europeo, “del miliardo a disposizione per la banda larga ne è stato usato solo il 30%”; a non fruire sono stati proprio i Paesi in ritardo.
Quasi sempre le telecomunicazioni sono usate di più nei Paesi ad alto Pil.
Ma ci sono alcuni scostamenti: in positivo l’Estonia, in negativo l’Italia.
E la stessa cosa si verifica anche a livello regionale: “Trentino ed Emilia Romagna sono i soliti sospetti, ma l’intervento servirebbe anche e soprattutto nelle regioni più povere”.

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