Affari nostri

Chi vuol esser pessimista sull’hi-tech?

Pare che in America siano pronti a una razione di pessimismo. Lo
apprendiamo leggendo quanto riportato dal corrispondente da New York del Sole
24, che ha analizzato l’ultimo lavoro del Conference Board, un centro di ricerca
che ha stilato il proprio rapporto annuale sulla produttività del lavoro.


Emerge che nel 2006 il tasso americano di crescita della produttività
(1,4%) è stato il più basso da dieci anni, inferiore addirittura a quello
dell’area euro (1,5%).

Ma c’è poco da vantarsi e, piuttosto, da
preoccuparsi. Specie leggendo le motivazioni: l’insufficienza di rendimento,
infatti, pare sia ascrivibile alla fine del virtuosismo apportato dalla
tecnologia.

Fra i tanti meriti sulla produttività, l’hi-tech ha anche la
colpa (?) di aver mascherato una carenza.

Ossia, con la propria carica
propulsiva ha coperto carenze strutturali delle economie.
Ora questa hi-tech
parrebbe non bastare più, non riuscendo a trasmettere più stamina all’economia,
che da sola non ce la fa.

Ci vorrebbero idee nuove da tradurre in
produttività. Già, ma come si fa, così su due piedi?
Fine della lettura di
quanto esaminato dal Conference Board e via a un paio di piccole polemiche.


Prima: da quando esiste, l’economia si è basata sul risparmio, che è
utile per finanziare gli investimenti a tutti i livelli, familiari e
imprenditoriali. Ma che è anche la prima cosa che il grande sistema
capitalistico è riuscito a neutralizzare. E il credito al consumo (inutile) è
qui a testimoniarlo: oltretutto lo hanno inventato gli americani e non ci
facciamo brutta figura a ricordarglielo.

Seconda: si dice che l’hi-tech
ora ha poco di innovativo da trasmettere alla produzione. Per forza: negli
ultimi cinque anni gli investimenti di sviluppo più sbandierati sono quelli
fatti su aggeggini, ninnoli al plasma, chincaglieria da trasporto, da vendere
alle masse anche se prive dei soldi per acquistarli (tanto c’era il credito al
consumo).

I conti, amari, alla fine tornano.

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