A chi potrebbe convenire la scalata della Cina?

Con un Pil in crescita del 9% il Paese costituisce una locomotiva per lo sviluppo o un serbatoio di competitor. La minaccia più importante è quella di restare fermi

Gennaio 2006, Non c’è ragione per avere paura della Cina. Ma non c’è
nemmeno ragione per stare tranquilli. Il rapporto con i "numeri"
di questo grande Paese deve ancora essere quello di reciproco studio.
è sbagliato alzare barriere, non solo protezionistiche, ma anche
culturali o ideali, ed è imprudente pensare che sia semplicemente
una "nuova frontiera" da conquistare, perché da quella
frontiera arrivano e arriveranno certamente tanti "conquistatori".

La Cina è tanto grande e complessa da essere tante cose assieme.
E forse, anche per esorcizzare alcuni luoghi comuni e alcune paure, si
può prendere a prestito un’immagine spesso utilizzata dai
commentatori economici secondo i quali l’Italia è la nazione
europea che più di tutte "assomiglia" alla Cina.

Questa
immagine di Paese basato su una struttura imprenditoriale molto polverizzata,
molto intraprendente, che si rifà a ricette imprenditoriali che
presentano molte analogie con le ricette più gettonate nei Paesi
emergenti, come la grossa presenza di un’economia sommersa, come
un’estesa evasione fiscale, come l’uso di manodopera dequalificata,
a basso costo e non sempre in condizioni "a norma" di legge,
risponde in parte alla realtà e in parte alla mitologia, un po’
ai luoghi comuni e un po’ alla furbizia italica di chiamare le cose
con nomi adeguati alle circostanze. Di certo c’è tanta intraprendenza
che l’Italia ha saputo anche organizzare e valorizzare alla grande
nei distretti industriali dove milioni di microimprese, spesso a gestione
o a impronta familiare, generano valore con la massima flessibilità.

E non è un caso che negli anni 90 proprio i distretti industriali
del nostro Paese abbiano conquistato una vera fiammata di popolarità
internazionale e siano stati additati per esempio, anche negli stessi
Stati Uniti. Il problema è che si è trattato di una fiammata
e che, mentre le imprese italiane continuavano ad "assomigliare"
a quelle cinesi, alle porte dell’Europa iniziavano a bussare i cinesi
veri. Mentre i cinesi intesi come clienti erano ancora protetti dalla
Grande Muraglia. Anche per questo il primo impatto non è stato
dei più felici. Dalla pancia delle piccole e medie imprese italiane
è sorto un rigurgito di nazionalismo e di protezionismo dettato
più dalla paura che dall’analisi dei rischi e delle opportunità.

Spinti allo studio
Al contrario dalla testa della grande industria sono arrivati segnali
diversi anche perché questo mondo ha potuto contare su altri strumenti.
I centri studi l’hanno aiutata a conoscere e a riflettere, il management
ha potuto permettersi di viaggiare, di visitare e di toccare con mano
i rischi e le opportunità. Ma anche la grande industria ha capito
che confrontarsi con un Paese con un Pil che cresce con un simile ritmo:
7,8 nel 1998, 7,1 nel 1999, 8,0 nel 2000, 7,3 nel 2001, 8,0 nel 2002,
9,1 nel 2003 e 9,0 nel 2004 e che alimenta un mercato di un miliardo e
299 milioni di persone, qualche preoccupazione la deve dare. Ma solo a
chi sta fermo ad aspettare cosa succede.

Per chi si muove le opportunità non mancano se si pensa che nel
2003 la Cina ha premiato i Paesi e le imprese più intraprendenti
con importazioni record pari a 412 miliardi di dollari, in crescita del
40% rispetto all’anno precedente. Tanti e con tante occasioni, ma
comunque meno di quanto le imprese cinesi siano riuscite a esportare (438
miliardi di dollari in crescita del 34% rispetto all’anno precedente)
a testimonianza della vitalità e della volontà cinese di
invadere pacificamente il mondo con i propri prodotti.

Il costo del lavoro
Ora che questi numeri sono destinati ad aumentare (basti pensare che per
il Pil cinese sono previsti tassi di crescita dell’8,5% medio nel
periodo 2004-2009), per chi assomiglia troppo ai cinesi è venuto
il momento di risolvere questa ambiguità, perché essere
"simili" ai cinesi può voler dire perdere competitività
nei confronti di chi si annuncia irresistibile sui fronti del costo del
lavoro e della flessibilità, ma può anche voler dire capacità
di adattamento e di innovazione per fare insieme alle imprese cinesi quelle
partnership che Paesi ed economie più rigide e strutturate non
riescono a immaginare o a creare.

La dirigenza si prepara
Per questo occorre sfatare alcuni luoghi comuni, come quello che la manodopera
cinese è dequalificata. è ormai noto che nelle università
americane la lingua più parlata dopo l’inglese è proprio
il cinese, e se si guarda alle facoltà tecnologiche questa percentuale
rischia di superare la presenza stessa di studenti americani. Sintomo
che la Cina ha sete di conoscenza e che sa investire in formazione. Segno
anche che si investe affinché possa crescere una generazione di
dirigenti preparati e qualificati e affinché si costruiscano quelle
infrastrutture capaci di consentire a tanti cinesi di evitare la staffetta
con l’estero per la loro qualificazione. Questa è "manodopera"
estremamente qualificata e a "basso costo" se paragonata agli
standard occidentali.

Poi, certo, esiste anche tanta manodopera dequalificata e a bassissimo
costo, ma è una componente di una realtà più complessa
che ha tracciato un proprio indirizzo verso lo sviluppo e che in questo
cammino può valorizzare diversamente anche la manodopera a basso
costo che può aiutare qualsiasi grande innovazione a imporsi grazie
alla capacità di unire innovazione tecnologica con prezzi di accesso
sempre più bassi. Anche perché nella costruzione dei successi
commerciali conta sempre di più anche la dimensione del mercato
interno che può già garantire all’industria dei numeri da
capogiro, come quelli di Lenovo che ha lanciato a settembre
2005 un nuovo telefonino con una campagna promozionale che le ha permesso
in un solo giorno di vendere 100mila unità di prodotto!

E’ chiaro che quando
si può contare su numeri simili si possono raggiungere economie
di scala difficilmente eguagliabili dai competitor e si può scommettere
con maggiore sicurezza su nuovi standard o su nuovi progetti, oppure si
può mettere sul tavolo dei grandi accordi internazionali il proprio
peso e incidere sulle scelte delle grandi corporation. Detto questo, come
può un grande produttore di tecnologie di base o di infrastrutture
trascurare un mercato di un miliardo di persone? O come può avere
il coraggio di imporre una propria tecnologia senza "passare"
dal mercato cinese?

Peraltro chi si avvicina alla Cina con lo spirito costruttivo per creare
relazioni e occasioni di business si accorge subito che il clima che si
respira è quello di un Paese che cresce e che vuole crescere, anche
attraverso un aumento degli standard di vita. I beni di largo consumo
sono un termometro che vale per comprendere lo stato di salute di ogni
economia e non a caso in Cina questo consumo aumenta a un tasso del 9,1%
all’anno per un mercato che nel 2003 valeva 553,87 miliardi di dollari.
Un valore enorme che, in realtà, va diversamente soppesato perché
la crescita veloce e intensa di questo Paese rappresenta anche un’ulteriore
occasione di allargamento nella forbice della disparità tra chi
è protagonista dell’innovazione, della formazione e dello
sviluppo e chi alimenta la forza lavoro a basso costo.

In effetti, se
si guarda al reddito pro capite delle città si scopre che raggiunge
la cifra di 1.023 dollari all’anno, decisamente modesta anche se
in crescita del 9 per cento. Per quanto modesta, si tratta di una cifra
notevole se commisurata ai 316 dollari di reddito pro capite delle zone
rurali, che non solo è più basso, ma che gode di una minor
spinta verso la crescita, valorizzando un modesto 4,3% di crescita annua.

Il mercato "compra"
E la grande opportunità di questo Paese è proprio la sua
forza lavoro. La vera sfida che la Cina sta vincendo è quella dell’occupazione.
Nel 2003 il numero degli occupati era pari a 744 milioni di persone, in
crescita di quasi sette milioni rispetto all’anno precedente. Di
questi oltre 256 milioni sono impiegati in aree urbane e questi crescono
di oltre otto milioni di unità all’anno. Un dato che è
il presupposto per la creazione di un grande mercato di beni di consumo.

Anche perché l’altra faccia del gigante Cina è quella
del grande investitore in imprese occidentali, vale a dire del mercato
attento e ricco che cerca in Occidente quelle imprese che lo possono aiutare
a crescere anche fuori dai propri confini. Quindi, Cina non più
e non solo come area di de-localizzazione, ma come mercato che "compra"
quelle competenze e quelle professionalità che non è in
grado di generare. Il caso più eclatante è certamente quello
di Ibm Lenovo ma sono tante le imprese anche di medie dimensioni del nostro
Paese che hanno ricevuto attenzioni da parte di società cinesi.

Dalla metafora di un’Italia che "assomigliava" troppo alla Cina
e che rischiava di essere spiazzata dai "cinesi veri" proprio
sulla flessibilità imprenditoriale e sulla capacità di adattamento
al mercato, c’è il rischio di passare alla metafora di una Cina
che scrive le nuove regole e che non ha paura di essere al tempo stesso
terreno di delocalizzazione e scrigno dal quale partono i capitali per
la conquista di imprese occidentali. Una grande contraddizione che svela
la vera natura del pericolo cinese e l’occasione per le economie europee:
cioè la capacità di quel Paese di esercitare un potere di
attrazione in quanto mercato nel quale produrre a prezzi bassi e contemporaneamente
in quanto mercato di approdo dei prodotti finiti. Pochissimi altri mercati
vivono questa dicotomia e, infatti, pochi altri crescono come la Cina.

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